
Nel cuore dell’Europa, la parola “riarmo” torna a occupare il centro del dibattito politico e strategico. Dopo decenni di pace relativa, la proposta – o l’ambizione – di destinare fino al 5% del PIL alla spesa militare sembra sempre meno un’ipotesi teorica e sempre più una prospettiva concreta. È un cambiamento profondo, che chiama in causa la nostra idea di sicurezza, la sostenibilità economica e il senso stesso dell’integrazione europea.
La guerra in Ucraina ha agito come una scossa tellurica nella percezione collettiva della sicurezza europea. L’aggressione russa ha smentito l’idea che il conflitto armato convenzionale fosse un relitto del passato. I Paesi baltici e l’Est Europa temono – non senza ragioni – che la minaccia russa non si fermi a Kiev. La Germania stessa, storicamente prudente sul fronte della difesa, ha inaugurato un cambiamento epocale, e gli Stati Uniti premono affinché l’Europa “faccia la sua parte”.
In questo clima, l’ipotesi di portare la spesa militare fino al 5% del PIL si fa strada come soluzione estrema ma apparentemente necessaria. Un gesto di forza, sì, ma anche un segnale che potrebbe ridisegnare l’identità del continente.
Ma cosa significa davvero questa cifra? Per la sola Germania si tratterebbe di oltre 200 miliardi di euro l’anno. Per l’Italia, circa 100 miliardi: quanto l’intero bilancio della sanità pubblica. Una simile riallocazione di risorse comporta conseguenze drammatiche: significa sottrarre fondi al welfare, all’istruzione, alla lotta contro la povertà e alla transizione ecologica. Non si tratta solo di una questione tecnica o contabile: è una decisione politica che impatta direttamente sulla vita quotidiana dei cittadini.
Chi sostiene questa scelta invoca la necessità di garantire la sicurezza e la deterrenza. Ma siamo sicuri che più armi equivalgano automaticamente a più sicurezza?
Il rischio è che ciascuno Stato agisca da sé, aumentando la spesa secondo logiche nazionali e producendo una moltiplicazione di sistemi d’arma, apparati burocratici e duplicazioni strategiche. In assenza di una vera politica estera e di difesa comune, il riarmo rischia di diventare una corsa all’accumulo, più utile all’industria bellica che alla difesa collettiva.
E intanto, le minacce del presente – guerre ibride, attacchi informatici, disinformazione, crisi climatiche – richiedono risposte molto diverse da carri armati e sommergibili. La sicurezza del XXI secolo si gioca almeno quanto nei laboratori digitali e nei sistemi energetici quanto nei poligoni militari.
Non si può negare che l’Europa abbia bisogno di rafforzare la propria autonomia strategica. Ma questo obiettivo non può essere perseguito in modo miope e frammentato. Ha senso aumentare le risorse per la difesa solo se inserite in una strategia condivisa, trasparente e guidata da una visione politica forte, orientata non solo alla protezione dei confini ma alla coesione interna e alla sicurezza umana.
Il rischio, altrimenti, è di costruire una fortezza assediata, non una comunità solidale.
Difendersi è un diritto. Ma anche interrogarsi sui mezzi e sui fini della difesa è un dovere. L’Europa non può permettersi di sacrificare la propria anima – fatta di diritti, inclusione, cooperazione – sull’altare della paura. Il 5% del PIL può essere una risposta tecnica, ma senza un orizzonte politico chiaro rischia di diventare un abbaglio: costoso, divisivo, e forse, inutile.
In un mondo sempre più insicuro, la vera forza dell’Europa non sarà misurata solo in missili o blindati, ma nella capacità di proteggere i propri cittadini senza smarrire la propria identità.
Alessandro Del Fiesco
Presidente AsNALI Nazionale