Alla vigilia dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il riconoscimento formale dello Stato di Palestina da parte di Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo ha riportato al centro dell’agenda internazionale l’unica prospettiva che può garantire una pace duratura: la soluzione a due Stati. Non si tratta solo di un gesto politico o simbolico: è un messaggio che parla anche di economia, di stabilità e di futuro. Perché la guerra, oltre a distruggere vite e città, presenta un conto salatissimo ai bilanci pubblici, ai mercati globali e alle imprese, comprese quelle italiane.

Basti guardare ai numeri. Israele, secondo il suo stesso ministero delle Finanze, ha già speso oltre 31 miliardi di dollari nel 2024 per finanziare le operazioni militari a Gaza e in Libano. Il deficit pubblico supera ormai il 6% del PIL, e analisti internazionali parlano di una possibile “decade perduta” per l’economia israeliana se la spirale bellica non verrà interrotta. Una spirale che non resta confinata entro i confini mediorientali: si ripercuote sull’energia, sui trasporti, sui mercati.

L’Italia lo sa bene. Le nostre piccole e medie imprese, ossatura del sistema produttivo, stanno già avvertendo l’impatto. Si calcola che 61,4 miliardi di export italiano siano esposti verso aree ad alto rischio geopolitico. Di questi, ben 20,3 miliardi appartengono ai settori simbolo del made in Italy – moda, gioielli, alimentare, mobili, occhialeria – dove le PMI sono protagoniste. Ogni blocco commerciale, ogni interruzione logistica, ogni crisi politica può tradursi in ordini mancati e fatturati bruciati.

La vulnerabilità è ancora più evidente sul fronte energetico. Quasi il 41% delle nostre importazioni di gas e petrolio proviene da paesi instabili o in conflitto, pari a oltre 27 miliardi di euro. È una dipendenza che espone le imprese italiane a oscillazioni imprevedibili dei prezzi. Già oggi le tensioni hanno fatto lievitare i costi: si stima che nel 2025 le PMI possano trovarsi a pagare 11 miliardi di euro in più per gas e petrolio, con un aggravio medio fino a 6.000 euro a trimestre per azienda. Per il solo gas, l’incremento atteso supera 1,6 miliardi di euro.

Sono cifre che parlano da sole. Ogni escalation militare in Medio Oriente alimenta instabilità globale, aumenta i premi assicurativi sul trasporto marittimo, costringe le navi a percorsi più lunghi e costosi, e riduce la capacità delle imprese italiane di essere competitive. Non si tratta di dinamiche astratte: significa ritardi nelle consegne, prezzi più alti per le materie prime, bollette insostenibili per i laboratori artigiani, margini sempre più risicati per le PMI manifatturiere.

Invocare la pace, dunque, non è solo un dovere morale o un auspicio umanitario. È anche una necessità economica. Senza stabilità, il “Made in Italy” rischia di essere schiacciato tra l’incudine dell’aumento dei costi e il martello della contrazione dei mercati. La diplomazia che oggi cerca di riaprire il dialogo israelo-palestinese non parla solo alle cancellerie: parla anche alle botteghe, agli stabilimenti, agli imprenditori italiani che vedono minacciato il loro futuro da un conflitto lontano ma capace di incidere direttamente sui loro bilanci.

Ecco perché il riconoscimento dello Stato di Palestina non deve essere letto solo come un atto politico, ma come un tassello di una strategia più ampia: quella di ricostruire condizioni di stabilità indispensabili al mondo intero. Perché la pace non è solo giustizia: è anche crescita, sviluppo, lavoro. Ed è nell’interesse di tutti – dai governi alle PMI italiane – fare in modo che questa prospettiva non resti una promessa, ma diventi realtà.

 

                                                                                                                           Alessandro Del Fiesco

                                                                                                                       Presidente AsNALI Nazionale

 

La pace: unico investimento possibile
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