Con il primo Dpcm del governo Draghi, in vigore fino al 6 aprile, il 66% dei ristoranti (oltre bar, pizzerie e agriturismi) sono costretti a rimane chiusi.

Con la sola eccezione della Sardegna, dove è possibile addirittura effettuare servizio al tavolo, la nuova mappa dei colori coinvolge oltre 2 locali su 3 lungo la Penisola andando a penalizzare la fascia serale che da sola vale l’80% del fatturato che le consegne a domicilio e l’asporto non riescono a compensare.

Ancora più grave la situazione nelle zone rosse ed arancioni dove è sempre proibito il servizio al tavolo e al bancone provocando un effetto a valanga per interi comparti dell’agroalimentare made in Italy, con vino e cibi invenduti per un valore stimato in 11,5 miliardi, dopo un anno di aperture a singhiozzo che hanno messo in ginocchio l’intera filiera dei consumi fuori casa, pari a circa un terzo della spesa alimentare degli italiani.

Per alcuni settori specifici, come quello ittico e vitivinicolo, la ristorazione rappresenta addirittura il principale canale di commercializzazione per fatturato, in particolare per i prodotti di alta gamma che risultano i più colpiti dall’impossibilità di programmare gli acquisti anche per prodotti fortemente deperibili dietro i quali ci sono decine di migliaia di agricoltori, allevatori, pescatori, viticoltori e casari che soffrono insieme ai ristoratori.

Nell’attività di ristorazione in Italia infatti, sono coinvolti circa 360mila tra bar, mense, ristoranti e agriturismi, le cui difficoltà si ripercuotono a cascata sulle 70mila industrie alimentari e 740mila aziende agricole lungo la filiera impegnate a garantire le forniture per un totale di 3,6 milioni di posti di lavoro.

La sfida da vincere pertanto, consiste nel difendere l’intera filiera agroalimentare nazionale, che da sola vale 538 miliardi pari al 25% del Pil ma è anche una realtà da primato per qualità, sicurezza e varietà a livello internazionale.

Gli effetti del DPCM: chiusi 2 ristoranti su 3
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