C’è un paradosso che il dibattito italiano fatica a digerire: quando la parola pace si materializza – magari per mano di un leader che non amiamo – diventa subito scomoda. La cronaca lo mostra con una forza che non consente giri di parole: con la liberazione degli ultimi ostaggi e lo scambio con detenuti palestinesi, la prima fase dell’intesa su Gaza ha preso corpo e Washington rivendica il ruolo di regia. È diplomazia in movimento, fragilissima, ma sufficiente per far defluire parte del war premium che gonfiava il prezzo del petrolio e per spostare il focus dei mercati dal rischio bellico alla crescita.

Questa “pace”, però, non è gratis. È transazionale, condizionata, e soprattutto ha un prezzo commerciale. L’accordo USA‑UE del 27 luglio ha riportato stabilità evitando una guerra di dazi generalizzata, ma l’ha fatto fissando un tetto tariffario del 15% per la gran parte delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, con impegni ad azzerare o quasi alcuni capitoli e a lavorare sulle barriere non tariffarie. In altre parole: meno incertezza sistemica, più attrito quotidiano. Per un Paese come l’Italia – manifatturiero, aperto, a filiera corta – è la differenza fra un cielo senza tempesta e un vento contrario che soffia ogni giorno.

E poi c’è l’altra metà del costo, quella che non compare nei comunicati ma incide nei bilanci: le barriere tecniche. L’esempio più chiaro arriva dalla meccanica agricola: il gruppo tedesco Krone ha sospeso l’export di grandi macchine verso gli USA, travolto da nuove richieste documentali su 407 prodotti‑derivati dell’acciaio che obbligano a certificare origine, peso e valore di ogni componente “fino all’ultimo bullone”. Un incubo di compliance che, se sbagli una virgola, può far scattare sanzioni pesanti. Chi conosce i distretti italiani della meccanica sa quanto tutto questo parli di noi.

A ricordarci che la “tregua” transatlantica non immunizza i settori bandiera è anche il dossier pasta: il Dipartimento al Commercio americano ha messo sul tavolo dazi anti‑dumping fino al 92% su 13 produttori italiani, che – se confermati – si sommerebbero al 15% generale portando l’onere oltre il 100% (107% nei calcoli più citati). Per un arcipelago di PMI che regge il made in Italy alimentare negli Stati Uniti, si tratta di un colpo fatale al margine già gravemente intaccato dall’inflazione.

Sul fronte energia la fotografia di queste ore dice che i prezzi del greggio sono scesi ai minimi di diversi mesi anche perché svanisce il premio‑rischio legato al conflitto; sul gas europeo (TTF), la volatilità resta ma i livelli sono oggi molto più gestibili rispetto al 2022 (contratto intorno a 30‑35 €/MWh la scorsa settimana). Tradotto per i distretti: bollette e input meno ansiogeni, pur con l’avvertenza che l’inverno europeo e i rischi ibridi sull’infrastruttura energetica restano variabili vive.

Anche la logistica sta uscendo dal cono d’ombra, ma con i piedi di piombo: l’Autorità del Canale di Suez invita le grandi compagnie a pianificare un ritorno graduale ma molte rotte restano deviate per prudenza. Se la tregua in Medio Oriente reggerà, i noli potrebbero normalizzarsi, ma le flotte non si riposizionano in una notte. Per chi esporta macchine, arredo, moda, significa tempi più prevedibili ma non ancora normali.

C’è poi il cambio. Nel 2025 l’euro si è rafforzato dai minimi di inizio anno, con oscillazioni ampie (da area 1,02 a picchi oltre 1,18 sul dollaro). Bene per chi importa materie prime, meno per chi fattura in USD a margini sottili: in tante PMI uno swing di 5‑10 cent può cancellare il profitto unitario se i contratti non sono coperti o indicizzati.

Come si traduce tutto ciò per l’economia nostrana? Gli Stati Uniti sono uno dei primi mercati dell’export italiano: 70,16 miliardi di dollari nel 2024, con una mappa di eccellenze che conosciamo (meccanica strumentale, farmaceutica, moda, agroalimentare, arredo, gioielleria). E a reggere questa presenza è un’Italia di piccole e medie imprese, più di 4 milioni di unità che danno lavoro a circa 13 milioni di persone e generano oltre il 65% del valore aggiunto nazionale. Se l’asse Roma‑Washington s’inceppa, la prima vibrazione la avvertono loro.

La buona notizia è che il ciclo interno – pur fiacco – non è in recessione: Bankitalia e Istat convergono su una crescita 2025 attorno allo 0,6%, con rischi (al ribasso) legati proprio a dazi, energia, geopolitica. Una pace che riduce l’alea bellica ma apre una stagione di protezione regolata può essere compatibile con quella traiettoria, a patto di trasformare la compliance da costo inevitabile a vantaggio competitivo.

Questa è davvero una pace scomoda per chi ha raccontato la politica estera solo come identità morale. Gli scambi di ostaggi e i cessate il fuoco piacciono ai mercati, ma arrivano incardinati in una nuova normalità protezionista fatta di tetti tariffari, liste di prodotti, carte bollate e controlli d’origine. Ora più che mai serve tecno‑realismo: con strumenti giusti e una diplomazia economica lucida, si può trasformare il costo della pace in convenienza.

 

                                                                                                                            Alessandro Del Fiesco

                                                                                                                       Presidente AsNALI Nazionale

Pace scomoda, Italia esposta: tra dazi, compliance e margini
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